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Genova ha nel suo DNA storico un destino da crocevia strategico dell’evoluzione del mondo.

I fatti del G8 non nascono e non muoiono nel luglio del 2001, ma segnano un passaggio fondamentale, una brusca battuta d’arresto, forse il colpo più duro inferto alla storia della teoria democratica mondiale. Prima di Genova c’erano stati già i fatti di Seattle, quelli tragici di Goteborg, ma è nella città ligure che la “Reazione Globalizzata” ha dato un decisivo colpo di reni.

Non mi aspettavo, al momento in cui ho deciso di vedere il film prodotto da Domenico Procacci e firmato da Daniele Vicari, che l’impatto che ne sarebbe derivato sarebbe stato emotivamente e intellettualmente così forte per me. Dal film non ho appreso nulla perché ero già a conoscenza dei fatti, perché avevo già visto il documentario di presentazione prodotto da Fandango, in cui vengono descritte, senza troppi giri di parole, le esperienze e le torture di chi ha subito il pestaggio alla scuola Diaz e all’interno delle strutture penitenziarie italiane, Bolzaneto su tutte.

Il film è violento non per il sangue e i pestaggi, perché, al riparo da ogni cedimento retorico, restituisce i fatti, per cui sono i fatti, al più, ad essere violenti; ma la violenza più dolorosa non è quella pure traumatizzante della furia delle forze di polizia che si abbatte sui corpi inermi di manifestanti e giornalisti.

Le atrocità del film sono, con tutta evidenza, legate a doppio filo con la sospensione dei diritti di coloro che sono stati brutalmente massacrati dalle forze di polizia in quel contesto e che rappresentano una metafora crudissima di quella stessa violenza a cui hanno sottoposto ciascuno di noi fino ad oggi e a causa della quale ci troviamo in ginocchio, senza possibilità di difesa, smarriti, sotto shock, forse feriti a morte, proprio come quei manifestanti.

Provando a fare ordine nel caos di riflessioni e emozioni che negli ultimi giorni mi hanno agitato, comincio col dire che ho subito pensato, davanti a quelle immagini, che a Genova avrei potuto esserci anche io, alla scuola Diaz avrei potuto trascorrere la notte anche io. Non avrei avuto alcuna capacità di proteggermi da quella violenza. Sarei stata massacrata, spaventata a morte, mi sarei sentita persa, terrorizzata, sarei di certo rimasta traumatizzata e forse da allora sarei cambiata per sempre. A Genova avrei potuto essere anche io e mai nella vita ho pensato di impugnare una spranga o bagnarmi di benzina per riempire una bottiglietta da lanciare. Ma questo non avrebbe fatto alcuna differenza. Da questo punto di vista, forse, la cosa non avrebbe avuto particolare rilievo, perché non sono certa di poter condannare in principio la scelta di chi concepisce la resistenza come (ATTENZIONE!) devastazione contro le cose e che a seguito di quegli stessi fatti ha subito condanne alla reclusione, non prescritte, superiori ai 20 anni. Detto ciò, immagino, che nella mente depravata di qualcuno, questa sarebbe colpa sufficiente per un pestaggio: non dissociarsi significa meritare la repressione. Ben al di là di certi aspetti di idiozia ideologica (che evidentemente solo quando depositata nelle scelte di alcuno è da stigmatizzare), la questione è che si può prescindere dai black bloc nel discutere di Genova, come il film sceglie di fare, senza sacrificare il nucleo della complessità della questione.

Genova ha segnato la fine di un movimento di resistenza globale, non dei black bloc, la fine dell’espressione e rappresentazione democraticamente riconosciuta di uno sviluppo diverso dell’economia, delle società, dell’evoluzione culturale e umana mondiale, non delle teorie anarco-insurrezionaliste e tutto il corredo di bla bla bla che si porta dietro l’eredità dei benpensanti. Genova ha segnato il destino del mondo ed è evidente che quanto è accaduto non è responsabilità né individuale, né collettiva di un solo paese, di un solo governo, etc.. Ciascuno di coloro che sono inclusi in questa catena dell’orrore sono complici e colpevoli individualmente e collettivamente, ma i meccanismi di narrazione adottati allora rischiano di individuare solo la punta di un iceberg gigantesco che ci ha fatto affondare rapidamente negli ultimi anni.

Se oggi si combatte schizofrenicamente pro e contro l’antipolitica, la tecnocrazia, il governo dei mercati, la Cina, la cultura autoctona, i nazionalismi, lo spread, la guerra tra poveri e così via, i motivi sono anche nei fatti di Genova. Abbiamo voluto pensare che fosse eutanasia, in realtà è stato un genocidio di massa.

Se Genova è stata il Cile di Pinochet e l’Argentina dei desaparecidos sarebbe comodo ascriverne – da sinistra – le responsabilità all’appena insediato governo Berlusconi. Il disegno era condiviso da tutti, incluso il deferente governo Berlusconi e chi lo ha preceduto, ma la condivisione parte da lontano ed è arrivata fino all’enorme crisi economica che ha travolto gli stati del primo mondo come un enorme tsunami dal quale si sono salvati, per ora, solo coloro che hanno ordito la trama della repressione del movimento e delle idee di uno sviluppo alternativo a quello sancito dai grandi interessi della finanza e della politica della globalizzazione forzata.

Ho faticato a innamorarmi ai tempi degli studi di legge che ho condotto e oggi (come tipico) mi sembra di capire di più il rilievo filosofico, teorico, ideale che maestosamente rappresenta l’elaborazione di un codice, della norma, che, inserendovisi, descrive il profilo del progresso della cultura e dell’evoluzione del cives. Non esiste diritto che non sia in grado, potenzialmente, di esprimere i livelli più alti della teorizzazione filosofica, del riscatto intellettuale dell’uomo. Di quegli studi, da quando storia del diritto è stata tale, il fulcro è da sempre stato la definizione (e l’ambiguo dualismo) di interesse pubblico e di interesse comune.

Questo concetto è stato spazzato via. A Genova ne resta la lapide.